Romolo Pietrobelli: ricordi e memorie di una vita in ricerca

Romolo Pietrobelli: ricordi e memorie di una vita in ricerca

Romolo Pietrobelli: ricordi e memorie di una vita in ricerca

Pubblichiamo l’intervista che Romolo Pietrobelli ha rilasciato nei giorni scorsi a due ex fucini, Carmen Di Donato e Andrea Di Gangi, pochi giorni prima dei suoi 100 anni. Si tratta di una testimonianza preziosa che arricchisce il patrimonio immateriale della Federazione universitaria cattolica italiana e di cui è custode Fondazione Fuci.

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È domenica, una bellissima domenica di ottobre. Ci rechiamo insieme a casa di Romolo Pietrobelli. Romolo è stato presidente della FUCI dal 1949 al 1955. Ci separa un’era. Noi siamo da poco usciti dall’università e lui ha tutta la lunghissima storia del nostro Paese alle spalle. Una storia di continuità, come ci dice subito rispondendo alla nostra prima domanda. Una linea continua, la vita di Romolo Pietrobelli, iniziata con la presidenza della FUCI che l’ha visto protagonista per tutto il dopoguerra negli eventi positivi ma anche nefasti del nostro Paese. Testimone della continuità, una figura rara in questo Paese, continuità intesa come fedeltà al progetto, quello di Montini, di Moro, ma anche delle tante ragazze e ragazzi che nella Fuci si sono incontrati, conosciuti, amati. Romolo Pietrobelli è grato per questa esperienza che ha segnato tutta la sua vita, ha voluto incontrare nella sua casa tutti i ragazzi e le ragazze che si sono avvicendati in Presidenza nazionale, trasmettendo loro memorie care e preziose, consegnando quel filo di continuità così spesso smarrito e sepolto e per questo tanto ricercato dalle nostre generazioni.

Vorremmo partire dalle fonti storiche della Federazione che l’hanno vista protagonista in tantissimi contributi, a partire da Ricerca, metterli insieme sarebbe davvero un lavoro imponente. Inaugurando la sua presidenza, don Franco Costa parlava di tre momenti della Fuci: il primo relativo alla fondazione, con Murri, il secondo con Righetti, Montini e tutto il filone montiniano, il terzo era quello che iniziava con la sua presidenza. Lei trova efficace questa periodizzazione?

Efficace non lo so, ma certo in una linea di continuità. Dunque, nel primo periodo, 1895/1896, nasce la Vita Nova per iniziativa di Romolo Murri, si sviluppa fino ai primi del Novecento, poi viene sostituita dall’altra rivista: Studium 1905/1906, il periodo è caratterizzato da un positivismo esasperato e anticlericale, quindi il piccolo gruppo originario di studenti – c’è una targa qui a Roma, a Piazza della Torretta, che lo ricorda – che si trovava nel nome del vangelo, era circondato da una cultura sociale e politica dominata da uno spirito antireligioso: la chiesa, il pensiero cristiano, la trascendenza erano esclusi, c’è un contrasto, sono tempi difficili per poter testimoniare con una presenza cristiana. Questo periodo iniziale comincia con Murri, passa da Martini – presidente importante dell’epoca – e finisce nel 1925. L’accoppiata Montini-Righetti è quella che dà una struttura organizzativa più significativa, più robusta e fonda la scelta della libertà e del vangelo come approfondimento della coscienza. I valori della coscienza, in questo Montini è fondatore della Fuci. L’esteriorità, la presenza esterna, non sono il primo obiettivo, anche perché non c’era forza numerica, ma comunque dal ‘25 al ‘33 Montini fa in tempo a dare un’impronta. Io Montini l’ho conosciuto piuttosto bene, anche Pio XII, ma Montini è stato il mio papa. Montini è stato con me maestro straordinario. Al tempo era pro-segretario di stato. Ho avuto il privilegio di conoscerlo da vicino, ricordo che una volta ero in attesa per un’udienza e venne lui a dirmi: “abbia pazienza Pietrobelli devo vedere un ambasciatore, prima ricevo lui e poi lei”, era desideroso di sapere come andava la Fuci.

Dopo la Fuci di Montini e di Righetti comincia la terza fase che è la sua.

Si, dove ci sono anch’io, in mezzo agli altri. Però il clima è diverso, è più favorevole. Io ho avuto la fortuna di essere chiamato a Roma – vi dirò anche come – in un momento in cui la Fuci ha un’eredità da gestire, già a quell’epoca, perché un nucleo non piccolo, prima di qualche decina poi di qualche centinaio di giovani, si riuniva e dava una struttura alle iniziative religiose, culturali, alla sensibilità politica dell’epoca, Righetti in questo era sensibilissimo, peccato che sia morto presto.

Lei non ha conosciuto Righetti, perché è mancato prima, ha conosciuto probabilmente persone che collaboravano direttamente con lui? Cosa si diceva di lui? Qual era il peso di leadership che aveva esercitato in quel momento in Fuci?

Si, ho conosciuto molti fucini di quel periodo. Righetti è il fondatore dei “gruppi di vangelo”, insieme con Montini. È un’accoppiata che si trova davvero bene insieme, due talenti: Montini – quando parlava con quegli occhi che perforavano – e Righetti hanno introdotto le Settimane di Camaldoli. Camaldoli è stata una delle ventate di ossigeno che ha tenuto in vita e fatto avvicinare alla Fuci le persone più esigenti che cercavano una fede adulta. La mia fortuna è stata di trovarmi all’inizio del terzo periodo – che inizia nel 1943. Non si parte da zero, c’è una tradizione, una storia già ricca che lo precede, è il periodo in cui si raccolgono i primi frutti della semina dei due Montini/Righetti

Lei quando è venuto a Roma?

Sono venuto a Roma nel ‘44, da Schio, in provincia di Vicenza, motivo per cui conoscevo le tre regioni del Triveneto. Ho girato parecchio per la Fuci, perché in quel momento nascevano i circoli. Quando ero a Schio avevo sempre avuto l’idea di fondare qualcosa, Schio è piccolina, 20.000 abitanti, quindi al liceo conoscevo tutti, i più desiderosi di perfezionarsi, in un clima religioso e spirituale, si sono trovati volentieri insieme, nella Fuci di quel periodo, residenti quasi tutti a Schio per la maggioranza. Questo gruppo si è segnalato all’interno della Federazione come un gruppo vivo, adesso non c’è più nessuno, sono tutti morti, ed è un motivo della mia tristezza. Tornando al passaggio del cosiddetto terzo momento è stato un passaggio favorevolissimo perché potevamo contare su personaggi di primo piano, perché la formazione culturale data dalla Fuci era robusta, il rigore nello studio era parte del progetto fucino e infatti anche in università erano tra i migliori, quindi non c’è da stupirsi se da quel momento la crescita è stata vigorosa. Io sono stato presidente dal ‘49 al ‘55, sei anni.

È un periodo in cui la Fuci è cresciuta tantissimo.

Erano ragazzi che studiavano, si segnalavano tra di loro, si incontravano. I convegni che si facevano in continuazione tra di noi riuscivano a far maturare i migliori. All’interno dell’Azione Cattolica noi siamo arrivati al massimo del numero – forse diecimila, non di più – e l’AC era in quel momento di tre milioni, Luigi Gedda era il presidente, che ha reso difficile la vita della Fuci. Però noi all’interno di un numero molto grande eravamo quelli che avevano diritto di parola, perché portavamo il vento nuovo.

Torniamo a Schio e al momento in cui inizia l’esperienza fucina.

Da Schio, dopo aver fatto esperienza nelle tre Venezie, sono arrivato a Roma perché don Costa, alla morte di mio padre, venne al funerale. Io ho conosciuto mio padre quando avevo 19 anni, perché si era separato da mia madre, quindi sono cresciuto senza il padre e ho una riconoscenza enorme per la mia mamma. Era una maestra, donna energica, aveva studiato a Verona. Mio fratello maggiore, aveva quattro anni e mezzo più di me. Don Costa al momento della sepoltura di mio padre venne a Schio, e mi disse “vieni a Roma” e io ne parlai con mia madre che incoraggiò ad andare, perché in quel momento non c’era più bisogno della mia presenza. La fede che io ho ricevuto all’inizio della mia formazione è l’educazione salesiana e gesuitica a Schio. Ho avuto la fortuna di avere due salesiani come padri spirituali e poi hanno avuto molta importanza per me tre libretti di padre Plus (gesuita) che mi hanno parlato a lungo della Trinità ed erano il catechismo un po’ avanzato, spiegato, dei gesuiti; la vicinanza con questi tre piccoli volumi mi ha dato una forza nella fede che non ho spiegazioni se non nella Provvidenza. Per cui dagli otto anni fino ai diciotto ho avuto una crescita della fede nelle cose che facevo: liceo, gruppo fucino che cominciava allora, mi sono immerso nelle cose che facevo portando la mia fede che non ho mai perso neanche nei momenti tristi.

Erano gli anni del fascismo, della guerra, lei giovanissimo.

Quando per esempio da militare, mi hanno offerto di diventare ufficiale/sottotenente delle camicie nere, attraverso un signore amico di famiglia, io dissi di no perché se dovevo fare il militare lo volevo fare in grigio verde e non con la camicia nera. Ma in quel momento la mia testa non era matura per un antifascismo robusto, un ragazzino di diciott’anni, cresciuto in un piccolo ambiente provinciale e chiuso. Una sera sono andato dai salesiani, c’era il coprifuoco, c’era una lampadina che illuminava la strada: era la polizia. Io ero nel gruppo con altri, uscivamo dall’oratorio salesiano e io ero verso la fine della fila, quindi ho avuto un’intuizione e senza correre, anche se le gambe mi dicevano di correre, sono tornato indietro, non si sono accorti di me e sono stato nascosto due giorni e due notti vicino al castello a Schio, vicino casa. Tant’è vero che poi la polizia di Schio mi fece arrivare il messaggio “dite al vostro amico Pietrobelli che se non si presenta sono guai”. Un po’ ho resistito ma poi non potevo più di tanto e ho cominciato a fare il militare. Mi hanno mandato subito in Piemonte, ero sempre in fureria perché ero tra i pochi che sapevano leggere e scrivere. In quel periodo lì ho avuto un’altra avventura. Lo dico a voi ma non è da ricordare: una cartolina in cui scrissi a mia madre “non mi manca niente, sto bene, ma vivo in un ambiente corrotto e marcio”.  Dopo un po’ di giorni mi chiama il colonnello chiedendomi se fosse mia, e aggiungendo: insieme con la cartolina mi hanno mandato l’ordine di mandarti in Germania per punizione. A diciotto anni e mezzo quindi ho fatto sei mesi di addestramento militare in Germania. La mia fortuna sono stati il mio temperamento e la fede. Ero lì in Germania quando ci fu l’attentato a Hitler, l’operazione Valchiria. Durante quei mesi ho anche buttato via i primi piatti, erano a base di orzo, non ero abituato a mangiarlo, poi è diventato prezioso per la fame. Finito il periodo tedesco sono venuto in Italia e mi hanno mandato in Piemonte dove ho fatto il postino del reggimento e ho girato tanto fino quasi al confine con la Francia. Non avevamo informazioni politiche di nessun genere (c’era il fascismo, stop) e abbiamo deciso di scappare, ma per scappare da militare bisognava avere una destinazione. Avevamo la carta intestata del reggimento, autentica, e ci abbiamo scritto sopra che dovevamo andare a Milano per preparare il materiale per il giornale del reggimento. Una cosa incredibile! Da Borgo San Dalmazzo, 400 km, che invenzione! Ci siamo fermati vicino a Torino, eravamo stanchi, il castello lì, che i fascisti che avevano occupato, lo chiamavano il castello del gran porco, che era vittorio Emanuele III. In quel momento si stava dividendo, l’asse si spaccava. Quella notte dormendo in un albergo, ho sognato me stesso con una corda al collo, morto impiccato perché avevano scoperto che avevo tradito usando quella carta autentica. Siamo partiti alle 4.30 del mattino per arrivare a Milano. Lì il clima era ancora fascista. Mancavano solo 8 giorni all’arrivo dell’armata americana. Io ho visto arrivare l’armata americana a Milano, ero vicino a piazzale Loreto dove avevano impiccato Mussolini e l’amante, ho visto una donna che era andata ad allacciare le sottane, un gesto di pietà che mi colpì.

Quindi lei ha visto Mussolini a piazzale Loreto?

Si. L’ho visto prima anche, quando ero in Germania, lui era già dimagrito, quando era scappato del Gran Sasso problemi di salute. Vedevo le ragazze con le cioccolate e le sigarette arrivati gli americani, liberatori, salivano sul carrarmato. E il giorno dopo Mussolini impiccato, una scena che non dimentico. Dopodiché ho ripreso la bicicletta che era in deposito da parenti a Milano, e in bici sono arrivato a Schio. Ricordo che alle nove di sera c’era il coprifuoco, ho suonato il campanello di casa e sento “sin tu ti?” ovvero “Sei tu?”. Da due mesi mia madre non aveva notizie, non funzionava niente posta, telefono. “Son mi”. Dopodiché mio fratello che era in Montenegro anche lui da soldato è tornato a casa e finalmente la guerra era finita. Intanto poi mi ero iscritto, dopo la maturità al Tito Livio a Padova. Abbiamo iniziato a fare la vita normale. Ho cominciato a conoscere la Fuci e girare le tre Venezie e …

Dove ha fatto l’Università?

A Milano, mi sono iscritto quando ancora non potevo trasferirmi, sono arrivato per la prima volta al terz’anno, ho fatto tre anni molto sodi, molto impegnati. Tre anni di filosofia, a Milano Cattolica. Il giorno dell’attentato a Togliatti è successo che contemporaneamente Bartali arriva in tappa quindi, tutte le trattorie piene. Il ciclismo ha salvato il momento critico, perché li ha portati tutti lì.

A quanti anni si è laureato?

Ventidue anni. Tre anni di studio molto intenso, finito quello don Costa, che mi aveva conosciuto in un convegno in provincia di Vicenza, e poi a Schio, quando era morto mio padre, mi disse di venire a Roma, consultai la mamma che mi disse “vai!”. A Diciotto anni alcuni parenti mi hanno persuaso che era opportuno che andassi a trovare mio padre, insieme con mio fratello, dopo un po’ di resistenza, perché era uno sconosciuto per noi, ci andammo. Lui era commerciante di vini molto abile. La Fuci poi mi ha rapito completamente, da presidente non ho avuto più un respiro per me, ho continuato a studiare, leggere. Poi mi sono iscritto e laureato in Giurisprudenza, ma quella l’ho fatta male, perché non potevo fare due cose bene.

Torniamo all’inizio della sua presidenza e al Terzo momento della Fuci.

Naturalmente il terzo momento mi ha trovato in una posizione di vantaggio rispetto ad altre candidature, tutte cose che io non conoscevo e non sapevo. Don Costa mi fa questa proposta io accetto non so con quale spirito di obbedienza, timore, avevo 23 anni. A Roma ho incontrato per la prima volta Vittorio Bachelet, Miesi De Januario che è diventata sua moglie, Raniero La Valle e altri personaggi che poi sono cresciuti e sono diventati o professori universitari, o ministri, protagonisti della politica e nelle istituzioni. Ecco perché dicevo che il periodo è fortunato perché io avvicinavo tutti questi personaggi con un’autorevolezza che mi era data dall’incarico di presidente non avevo nessun altro merito o titolo. Don Costa, con Carlo Moro è stato sostenitore della mia candidatura. Era candidato anche un fucino molto in gamba, Giorgio Ciauslini, nato in Georgia, ma il Vaticano di fronte all’ipotesi di questo nome, ha messo il veto. Cose che so attraverso don Costa, perché la vicinanza del regime comunista incuteva timori alla curia vaticana. Quindi dopo un po’ di selezioni sono diventato presidente. Ho iniziato a girare l’Italia, e a conoscere vescovi, cardinali, e accompagnato dalla fama della Fuci degli anni precedenti, degli ex fucini degli anni ‘30-40, potevo avere ingresso dappertutto, senza fatica e senza merito potevo andare a bussare alle porte di questi signori, diventati famosi: Colombo, Spataro, Vanoni. Personaggi che ho conosciuto da giovanissimo, un confronto che mi costava, mi costringeva, per non fare fesserie a crescere, studiare, approfondire.

Come girava?

Con il treno, a un certo punto il presidente Andreotti mi aveva mandato un tesserino di prima classe. Ho girato per 3,4 anni in prima classe senza pagare una lira, alleggerendo i costi per la Fuci. Anche questo è stato un fatto di fortuna. In quel periodo appena diventato presidente lui mi ha fatto conoscere De Gasperi. E la prima parola che De Gasperi mi rivolse fu “ah i nostri continuatori”. De Gasperi conosceva la storia che mi aveva preceduto, ma sentirmi chiamare da De Gasperi “suo continuatore” mi fece un certo timore, ma ho retto a questa cosa. E ho fatto a tempo anche a conoscere Sturzo. L’ho conosciuto perché il Vaticano aveva convocato don Costa, tramite Montini che era pro-segretario di stato di Pio XII, papa Pacelli, avevano convocato don Costa per dire vai da Sturzo che la smetta di dare fastidio, diciamo in parole povere, di intervenire nella politica italiana perché noi non siamo d’accordo che ci sia suo influsso. Quindi don Costa andò da Sturzo e io lo accompagnai con la mia macchina.

In quel periodo c’era timore da parte della Santa Sede anche che ci fosse un’apertura verso la gioventù comunista?

In quel momento c’era un terrore del comunismo, noi eravamo anti comunisti, ma ci frequentavano in università che è luogo di incontro non ci si può ignorare. Ci facevamo conoscere con la nostra identità, ma queste venature di apertura non erano gradite. E questo è stato il nocciolo del discorso fatto con Pio XII a Castel Gandolfo. Ci andai con la vespa, che Montini mi aveva regalato, mi ricordo quel tragitto da Roma a Castel Gandolfo, vestito con la coda, incredibile! E lo stesso Pio XII era in veste dimessa lì e quindi mi mise facilmente a mio agio e io difesi un certo tipo di discorso, che era una domanda ma che era anche una presa di coscienza e posizione, cioè: anticomunisti si, ma con loro si doveva parlare, discutere, penetrare in culture diverse, affinché il senso evangelico entrasse in tutte le fessure possibili.

Ci racconta di questo incontro?

Un’ora di colloquio, tant’è vero che i segretari all’uscita mi dicevano “Presidente…un’udienzona!”, e ricordo benissimo che in questo salone grande, disadorno, c’era questa sua scrivania e dietro aveva le tende. Era un uomo pulitissimo, bianco di vesti e curava molto la sua persona. A un certo punto, portò il braccio dietro alla schiena, spostò la tenda e lì c’era uno schiaccia mosca ricordo che, davanti a me, lo prese e colpì il tavolo, dicendo poi “ah, l’ho sbagliata”. È un particolare che non ci si aspetterebbe, anche questo mi aiutò ad essere più tranquillo e cercai di spiegare che con i giovani comunisti bisognava avere contatti, non aderire ma avere contatti. Lui era perplesso, era un uomo molto buono mi lasciava parlare e gradiva che io parlassi, perché voleva conoscere la Fuci, chi era questo giovanotto che arrivava in quel modo. Quindi ho questo ricordo di un colloquio cordiale. Tornai rinfrancato dal colloquio ma anche timoroso, perché era una posizione di fragile equilibrio la nostra. Avevamo delle simpatie di alcuni comunisti nei nostri confronti, però più di questo non c’era, non c’è mai stato un rapporto formale. Tra l’altro quando ci fu il congresso a Palermo, dovetti andare dal Cardinale Ruffini, e chiesi il permesso, autorizzazione di  far venire un gruppo di presidenza della gioventù comunista al congresso; mi avevano telefonato perché volevano venire a portare il loro saluto, mi sembrava scortese, a casa del cardinale, non informarlo prima e lui mi ricevette con il presidente della regione e non era convinto, però non mi disse no, io avevo dato appuntamento al responsabile dei comunisti di Palermo, che sarebbero arrivati il giorno dopo, mi chiesero di venire e avevo detto aspettate sento prima che aria tira. Io ero convinto che fosse utile. Il giorno dopo, non sono venuti, e non ho avuto spiegazioni, non so che spiffero contrario ci sia stato, era difficile saperlo. Questo per dire come era il nostro atteggiamento, anticomunista, ma di rapporto, di confronto anche duro.

E questo vi contrapponeva a Gedda però…?

Esattamente. Gedda ci guardava sempre con sospetto, anche perché conservavamo la nostra libertà nei Consigli nazionali in Azione Cattolica, eravamo sempre diversi dagli altri, distinti non contrari. Avevamo già un’identità che non corrispondeva esattamente all’Azione Cattolica di Gedda. C’è stata sempre un po’ di tensione con Gedda, che poi abbiamo superato, tant’è vero che quando Montini fu chiamato a Milano per fare l’arcivescovo, Gedda chiamò me, perché la giunta si riuniva e voleva che qualcuno salutasse per conto della AC il partente Montini, sapeva del mio rapporto e mi chiese di fare io il discorso a nome della presidenza di AC. Mi ricordo che per un pelo non dissi la frase che avevo sulla punta della lingua, ovvero: il treno che va a Milano ha anche un ritorno da Milano a Roma. Detta in quella sede con tutta la giunta, non ho avuto il coraggio, una mia debolezza, e ancora mi dispiace dopo 80 anni.

Perché Paolo VI era stato allontanato, punito in un certo senso?

Lui in segreteria di stato camminava in punta di piedi, rispettosissimo di Pio XII , mi ricordo, una sera a cena da Montini, che era prosegretario, con don Costa ed altri, mentre stavamo a cena ci fu un messo che lo avvisò: “c’è il Papa che la chiama”, lui scattò come una molla, poi tornò, chiaramente non disse nulla, ma mi colpì questo rispetto, pur essendo un uomo che aveva una sua forza, autonomia culturale. Montini obbediente e fedele, non ha mai tradito neanche nell’ombra la fiducia che il papa gli dava. Tant’è vero che quando il papa ha ricevuto i genitori di Montini, bresciani, fece un elogio straordinario per lui che era sobrio nel parlarepur sapendo che non era delle sue stesse idee in molte cose.

All’interno anche della crescita numerica dei circoli, si passa dai grandi circoli Padova, Roma, a una primavera di nuovi circoli, in questo solco lei inaugura la Cappella della Sapienza e due pensionati importanti: Gregorianum di Padova e il pensionato della Fuci di Sassari

Il vescovo di Sassari, che era stato fucino mi aveva invitato per l’inaugurazione, naturalmente avevano bisogno di soldi, ne parlai con Andreotti, e li aiutò e venne a inaugurare il pensionato. A Padova invece, non è stato il vescovo a cercarmi, era amico di don Costa. E il vescovo decise di destinare un certo ambiente al pensionato della Fuci, ancora mi mandano gli auguri di Natale dal Gregorianum a Padova.

E la cappella della Sapienza?

La cappella fu una cosa molto importante del periodo mio e lì conobbi l’attuale Presidente della Repubblica, Mattarella, fu molto cordiale, aveva letto un mio intervento su Ricerca e mi fece un elogio. Un uomo degno di stima con un’interiorità straordinaria e regge di fronte alla marea di oppositori interni e di difficoltà immense nel panorama del nostro Paese ma anche del mondo intero.

Intesa universitaria?

Un’invenzione quasi spontanea perché bisognava unire, aldilà della Fuci, tutti gli universitari che si dichiaravano cattolici, per esempio gli universitari della giovanile della democrazia cristiana. Ho avuto rapporto frequentissimo con Franco Maria Malfatti, che poi è diventato ministro, perché bisognava unire le forze perché c’era il comunismo che era forte, quindi necessario allearsi con tutti gli universitari cattolici. E lì un altro personaggio che non va dimenticato è stato Franco Salvi, che ho avuto come vicepresidente. Quando mi fu chiesto di diventare Presidente dissi che avrei accettato la presidenza se avessi avuto lui come vicepresidente, una persona stimabilissima, la sua strada accanto ad Aldo Moro, ha realizzato la scelta. A me era stato offerto quando ero ancora a Schio, di fare il deputato ma rifiutai perché volevo studiare, fare la professione se facevo il deputato a 22/23 anni finivo che ero troppo povero di esperienza, e rischiavo di essere un deputato che durava una legislatura. Grazie a don Mario Bruner assistente regionale delle Acli (del Triveneto, ndr), voleva che mi candidassi. Ma ho fatto bene sono contento di aver detto di no.

Le settimane teologiche?

Erano un incontro molto rigoroso, c’era il meglio dei teologi italiani che la Fuci aveva la forza e il coraggio di invitare. Detto tra parentesi, in quel periodo una ventina forse anche trentina di preti delle varie diocesi sono stati i diffusori della vita della Fuci. Abbiamo scatenato una serie di energie: settimane teologiche, incontri di studio, gruppi di vangelo, tutto questo contemporaneamente in Italia ha preparato una struttura e una preparazione religiosa e culturale in Italia che è merito della Fuci. Don Costa, don Guano, don Vivaldo… Organizzando questi incontri tutti gli anni a Camaldoli, Ma anche in giro per la penisola, c’erano iniziative che replicavano gli incontri a Camaldoli. Sì è compiuta una seminagione che è stata una caratteristica della religiosità della Fuci. Una seminagione non dico silenziosa, ma quasi, e che ha dato i suoi frutti. Lo stesso Righetti era un uomo che lavorava per approfondire il mondo interiore e favoriva e aiutava i sacerdoti che si avvicinavano. La caratteristica dell’approfondimento religioso, per noi era una specie di università che si diffondeva e ci riuniva. I temi erano religione e tutte le scienze che si incontravano, in tutte le facoltà, c’è stato un avvicinamento progressivo e largo, attraverso le settimane di Camaldoli e sono diventati esperti in materie che prima non conoscevano.

Tra l’altro quelli erano gli anni dei Consigli di facoltà della Fuci, in cui i singoli fucini dei gruppi si riunivano anche per gruppi rispetto alla facoltà frequentata. Furono introdotti proprio durante la sua presidenza.

Se ho un privilegio è che ho girato tutta l’Italia, dalla Sicilia a Trento, perché la Fuci raccoglieva le migliori energie e lì ho conosciuto e fatto amicizia con centinaia di persone che poi nella professione si sono affermate come professionisti di valore.

Come era la sua vita quotidiana di presidente?

Ho avuto il privilegio di avere una vita intensa, senza respiro, perché dovevo gestire la presidenza a Roma, la presenza nostra nel consiglio dell’Azione Cattolica, dove dovevamo avere sempre una posizione da esprimere, dovevo rappresentare la Fuci nei vari mondi che frequentavo… e quindi, quando mi chiesero di continuare per il secondo triennio ho obbedito a fatica a don Costa. Spirava un’aria non positiva, mettere un successore che era un uomo di Gedda, ma aveva un altro stile di presenza. Gedda è venuto anche al mio matrimonio, di ritorno da un’udienza, a sant’Ivo alla Sapienza, vestito con tutte le cose che si indossano dal papa. Me lo sono visto arrivare con gli amici, Colombo, Russo, tutti ministri. La Fuci da questo punto di vista è stata una calamita, mi ha consentito di frequentare tutti gli ambienti. I primi anni del terzo periodo sono stato anni impegnativi e faticosi ma splendidi di esperienza.

Lei dove risiedeva? Quali erano i luoghi della Fuci a Roma?

Prima a sant’Ivo, dove nascevano tutti i gruppi e dove ho incontrato Silvana, che poi è diventata mia moglie. Poi dormivo e mangiavo, ero ospitato dai filippini di padre Caresana. Tra l’altro, padre Caresana, mi chiese se volevo farmi prete con loro, io mi ricordo che diedi una risposta netta e chiara: io voglio diventare padre di figli, e infatti ho desiderato i figli ne ho avuti 4 e 10 nipoti e riempiono la mia vita, senza di loro sarei morto prima di sicuro. Caresana era il confessore di Montini, prima e dopo che diventasse papa. Lo vedevo quando si sistemava il collarino bianco dei filippini per andare dal papa, e c’era l’auto del Vaticano che lo aspettava. Quindi prima eravamo a piazza Cavalleggeri, dove si è spostata poi la redazione di Ricerca, quando la presidenza si è spostata su via della Conciliazione, poi palazzo San Paolo al quarto piano.

Ci furono anche viaggi internazionali? Il primo viaggio internazionale l’ho fatto con la fidanzata del presidente della Fuci dell’epoca, in Canada con Pax romana, c’era lei che era Marisella Valier che sposò Paronetto, con cui eravamo molto in amicizia. C’era anche don Guano nel viaggio. Uno dei motori si fermò, siamo dovuti scendere vicino all’Inghilterra e una notte la passammo a terra mentre riparavano.

Qual è stato il suo lavoro?

Anche qui c’entra don Costa. A un certo punto della mia esperienza, io non ero ancora in attesa del lavoro ma desideravo fare la professione, non sapevo cosa nello specifico; ho dovuto fare il secondo triennio per obbedienza, ho imparato un sacco di cose, esperienza del tutto religiosa prima, ecclesiale poi. Ma anche culturale, mi sono dovuto confrontare con altri pensieri: radicali, anti ecclesiali, però ero ferrato da una preparazione precedente, filosofia in particolare, fede e ragione hanno camminato insieme per me e non ho mai avuto incertezza su questo piano, anche questo lo definirei dono della Provvidenza.

Tornando al suo lavoro…

Chiamata di Costa a Isidoro Bonini presidente dell’IRI. Entrai nell’attività professionale come segretario di Bonini, ho imparato molto perché lo seguivo dappertutto, anche nei contatti che aveva, potevo sentire la storia delle Società da Nord a Sud, cominciavo un’infarinatura del settore industriale nazionale. Sei sette anni di ispettorato che era una scuola, da sindaco di diverse società ho imparato come si fa un bilancio, non sono diventato un esperto, ma a sufficienza per quello che dovevo fare. E quindi ho girato molto. A Genova ho conosciuto Piano l’architetto. Ho conosciuto un ministro massone quindi ho frequentato un ambiente del tutto fuori dal mondo cattolico. Quando poi sono tornato all’Iri dopo sette anni ero pronto per la professione vera, ho avuto un’offerta a Bari, e ho rifiutato perché ero già sposato, e non volevo stare lontano, Silvana mia non voleva venire a Bari, poi a Udine dove mi avevano chiamato come direttore generale. Sempre con queste qualifiche al di sopra del merito, dissi di no anche a quello per rimanere a Roma. Anche perché dopo la Fuci sono entrato nel Movimento laureati. Lì ho conosciuto il resto del grande mondo cattolico. Vittorino Veronesi, amico carissimo, presidente di una banca, ma era vicentino. Quando è arrivato Giovanni Paolo II, eravamo lì con la giunta di azione cattolica e lui mi parlò di un italiano, Vittorino Veronesi, e dissi che lo conoscevo, mi disse che gli avrebbe fatto piacere se l’avessi messo in contatto con lui, perché era stato in Polonia e lo aveva conosciuto quando era arcivescovo. Mondo cattolico, mondo laico, massonico. Dall’IRI ho fatto anche il presidente a Napoli per una società. Perché facevo il presidente? Perché ero in una posizione privilegiata, il segretario del presidente dell’IRI. E quindi mi son trovato in posizioni sempre piuttosto privilegiate.

Ci racconta come è nata la Fondazione Fuci?

È nata anche dall’incontro di don Costa con Montini. Tornò don Costa e mi disse che Montini avrebbe voluto per la Fuci una base economica più robusta, più solida. Don Costa portò il messaggio di Montini e io – negli anni – lo misi in atto. Nel 1995 nasce la Fondazione Fuci on un primo omaggio della Santa Sede e dopo con il contributo di alcuni ex fucini che erano in grado di aiutare. Ho chiamato tutta gente che conoscevo della Fuci, il mio mondo era diventato quello ormai. Quindi la Fondazione è nata così.

Qual è stato il suo desiderio più grande?

Volevo diventare padre, questa era una cosa che avevo nel sangue. Di fare il mio dovere in maniera corretta, imparare un mestiere, infatti mi sono messo a fare cose che non pensavo avrei mai fatto. Da filosofia, al diritto, alla dirigenza.

Qual è il suo desiderio oggi?

Di andare in paradiso! Io aspetto il transito, perché io ho avuto tutto, io non ho più desideri, davvero. Io sono contento, dei miei quattro figli, i 10 nipoti, eh, che diamine sono 25 anni che sono in pensione, ma non mi sono mai fermato lo stesso, ho lavorato fino a 90 anni, sono andato in pensione a 70 mi pare. Non ho mai coltivato desideri futuri, cercavo di fare il mio dovere dove stavo. Cercavo di imparare, conoscenze approfondite in tutti gli ambienti. Io mi sento da questo punto di vista debitore, non della buona sorte, sì anche quella, ma della Provvidenza perché non ho mai perso la serenità, ho fatto il mio dovere, ho incontrato Silvana che mi ha dato i figli. Ci siamo sposati nel 1954.

a cura di Carmen Di Donato e Andrea Di Gangi