Diego Toma
Se ci fermassimo più spesso a guardare negli occhi l’altro che incontriamo e se ascoltassimo con attenzione le sue parole, scopriremmo che la nostra vita è stata un ricco susseguirsi di piccole e grandi testimonianze, perché nell’alterità della relazione la contaminazione è feconda, perché le parole, le esperienze, le azioni degli altri entrano nella nostra quotidianità, nei nostri codici e li arricchiscono, li interrogano, spesso li stravolgono.
È con questa chiave di ricchezza che rileggo oggi l’esperienza fucina e l’incontro tra gli altri, con Diego.
Tanto per capirci, questa introduzione lui non l’avrebbe mai scritta, perché degli eccessi di “fucinità” è stato un sincero avversario. Cultore serio dell’approfondimento, ma allo stesso tempo detrattore di quell’eccesso di teorizzazione sganciato dalla prassi, in cui – da apprendisti ricercatori e aspiranti intellettuali nell’era fucina – spesso tendevamo a ricadere.
Ci siamo incontrati nell’esperienza dei Consigli Centrali e degli appuntamenti nazionali, ma è stata poi la condivisione del pensionato della Domus Pacis oltre che della vita di Presidenza a farci diventare amici. Tanto da far fatica a discernere, nella intimità di una relazione durata trent’anni, e d’improvviso interrotta, quale possa essere la sua cifra di testimone e quale quella di compagno di strada.
Ma se dovessi individuare alcuni messaggi sui quali Diego è stato profetico, nella sua semplicità, e certamente testimone per noi che lo abbiamo incontrato, direi che riguardano cinque aspetti: la semplificazione del linguaggio, la necessità di un orizzonte europeo, la sfida di incardinare la nostra missione nei luoghi fisici delle Università, la ricerca di un riformismo politico che non avesse solo una visione istituzionale, l’attenta osservazione delle cose.
Mi spiego.
Uno. Il linguaggio. Non era un semplificatore. Né uno che riduceva la complessità. Ma di fronte a alcuni eccessi della narrativa fucina che in alcuni contesti – penso alle tesi congressuali – ricercavano spesso anche la parola evocativa, lui anteponeva l’esigenza di farsi comprendere dalla diversa platea fucina. Ci riusciva. E spesso ci aiutava a riuscirci.
Due. Lo sguardo sulle cose. Tra il distratto e il sovrappensiero Diego aveva il suo sguardo attento sulle cose, una capacità di cogliere il nocciolo delle questioni che lo portava con assoluta naturalezza a parlarne secondo principi di immediatezza, concretezza, chiarezza. Una cura e una attenzione al bello che ha poi nel tempo riversato nella sua passione per la montagna, per la fotografia, per il viaggio, ma che si nutriva dello stare insieme. Tra i difetti che aveva, era astemio, ma ciò non gli impediva di partecipare alle lunghe serate di Camaldoli, dove il Laurus faceva da animatore o ai raduni crepuscolari degli anni che seguirono la fase fucina, resi liturgici dallo stappare di una bottiglia, ma che sono e rimangono a quasi trent’anni di distanza il collante relazionale della nostra generazione. Ma nonostante questo la sua presenza era sottile e costante, divertente e divertito, sempre capace di darci il suo sguardo originale sulle cose.
Tre. L’Europa. L’esperienza dell’Erasmus di Valladolid o degli scambi in Albania, lui se la portava con sé. Insieme alle sue radici pugliesi e napoletane e alla sua romanità. Per questo fu naturale che fosse lui a seguire la Jeci Miec. Diego era per tutti noi portatore di una visione altra. Di uno sguardo meno chiuso su un orizzonte interno che nella fine dello scorso secolo era molto più marcato di oggi. Ci ha spinto a guardare fuori, a tenere le reti, mantenendo le radici. Europeista ante litteram, sguardo globale e radici salde.
Quattro. L’Università. Eravamo universitari ma ci giravamo intorno. Per questo Diego si inventò l’University Day. E ci convinse che non potevamo ragionare intorno al cambiamento, ma dovevamo dare forza al ragionamento sul cambiamento. Tutti insieme, nello stesso giorno, per dare energia alle idee di tutti ed essere capaci di provare a fare sul tema “opinione pubblica”. Questo portò la FUCI ad essere un po’ più protagonista e i nostri temi arrivarono ai tavoli di concertazione coordinati da Berlinguer e Guerzoni.
Cinque. Ragioniamo di riforme, sì. Ma senza dimenticare l’economia. Avevamo le radici nella FUCI degli anni Ottanta, quella di Bari, del referendum istituzionale. Il filone costituzionalista e riformista ci prendeva ancora. L’esperienza di Parte Civile, la rete di confronto e elaborazione con Legambiente e MFD, in quegli anni ci portò a ragionare e a proporre istanze sui temi della partecipazione e dei referendum. Anche robe belle. Che presentammo nei Palazzi romani con l’orgoglio e la spavalderia dei giovani in cerca di protagonismo. Ma ci portava poi sempre a ragionare d’altro, del welfare che si indeboliva, della necessità di tornare a mettere al centro un approccio sociale ed economico, con un ruolo non subalterno dello Stato e delle parti sociali. In una logica libera dalle appartenenze che gli consentiva di cogliere meglio le novità e le crisi. E non fu un caso che al centro del Convegno di Napoli ci fossero proprio i suoi temi.
Io l’ho sempre vissuto come un amico e un compagno di viaggio. Raccontarlo qui come un testimone di vita è una esperienza strana. Ma nella FUCI di quegli anni, senza mai il piglio del protagonismo, con l’umiltà di chi non decide ma accompagna, con quel tocco di ironia e autoironia che caratterizza gli intelligenti, sempre libero nel pensiero e nella fede, con le sue robuste iniezioni di laicità, con la sua pervicace volontà di non omologarsi al paludamento di certi ambienti ecclesiali e istituzionali, e il costante invito a non cadere nell’autoreferenzialità, i suoi segni ci sono eccome. Come ci sono nella vita di ciascuno di noi che incontrandolo lo abbia ascoltato, accolto, condiviso.
Emanuele Pasquini