Fuci e Istituto Focolare ad Acireale: l’età del volontariato
di Vincenzo Tomasello*
‘Ho 5.000 lire e vado in Spagna; ci vediamo a settembre a Milano’; era questa l’atmosfera di spensieratezza dei primi anni Settanta.
Un gruppetto vicino alla comunità Fuci di Acireale, poi io stesso, cominciò a frequentare, per poche volte in verità ma quanto basta, la comunità ecumenica di Taizé in Borgogna, che, sulla scorta delle indicazioni del Concilio Vaticano II e delle spinte della teologia della liberazione che fioriva in America Latina, percorreva la strada della riunificazione delle chiese cristiane.
Ci saremmo sempre più incontrati dai monaci camaldolesi, a cominciare dalle settimane studentesche di teologia; si parlava della nostra responsabilità storica di cristiani, di come poter cambiare il mondo e la vita; leggevamo Roger Garaudy, teologo francese del cristianesimo rivoluzionario e nonviolento, assieme al più marxista Giulio Girardi, e al pedagogista della liberazione Paulo Freire.
Avevo seguito da studente le vicende dell’Abbé Pierre dalla rivista salesiana «Dimensioni Nuove», cui era abbonato il nostro Liceo Classico «Gulli e Pennisi», quando era preside il prof. Antonino Rizzo: diventai per poche settimane uno chiffonnier d’Emmaus.
Lì incontravo la mia generazione: obiettori di coscienza del Servizio Civile Internazionale, pacifisti americani disertori dalla guerra del Vietnam. Ricordo un panettiere anarchico di Ventimiglia che faceva sei mesi di lavoro in Germania e sei in Francia per perdere ogni nazionalità e diventare così apolide.
La guerra nel Vietnam aveva il potere di dividere il mondo in modo netto: i buoni da un lato e i cattivi dall’altro; la lotta per la giustizia, ma anche l’insensibilità della classe politica egemone nel nostro paese ai nuovi temi della politica: questo creava uno spirito di contrapposizione radicale. Occorrerà aspettare vent’anni perché essi siano – in qualche modo – nello scenario parlamentare.
La settimana di incontri internazionali che sarebbe sfociata nel Concilio dei Giovani nel ‘74, portava questo tema: “Lotta e contemplazione per essere uomini di comunione”. Lotta e contemplazione: che bisticcio! Ma che fascino per le nostre anime senza mezzi toni; era vero e proprio blues esistenzial/politico; miccia teologica, nuova teoria politica; il silenzio, nella preghiera, sapeva mescolare l’esplorazione dell’anima con una forte vocazione sociale.
Con questa fermentazione si frequentava la Fuci ad Acireale, con le sue riunioni infinite; la forte dialettica interna era guidata da due padri domenicani che si sono succeduti come Assistenti ecclesiastici: padre Reginaldo Grasso e Francesco Sofia. I dissidi interni dividevano il gruppo tra tiepidi, dubbiosi e quelli che usavano come strumento (ma non come filosofia!) l’analisi marxiana della società capitalista; focose decisioni, letture sociali e politiche e analisi del territorio; l’impegno sociale accanto alla coltivazione di una fede matura (si diceva così… sembrano mille anni) erano le tematiche dominanti al suo interno.
Con la Presidenza di allora (Rosario Sciuto, demitiano, futuro sindaco, già impegnato in quello che allora si chiamava il Carcere minorile) ci si avvicina ad un progetto di volontariato.
Si realizza così una vera e propria Convenzione che prevede la collaborazione (solo di lì a poco alla scuola di Luciano Tavazza si sarebbe detto ‘volontariato’) tra il gruppo FUCI e l’Istituto Focolare di Acireale, che era una comunità d’accoglienza ante litteram (non si chiamavano ancora così): laboratorio d’inserimento e ri-socializzazione dei minori socialmente devianti. In questo scenario entra anche Rosario Cantone, che frequentava i corsi di Servizio Sociale: egli invita subito a mettere bene in evidenza questa dimensione di laboratorio, perché a ben vedere costituisce una novità metodologica e di stile che era propriamente nostra e che noi introducevamo nel lavoro – non più solo di ‘assistenza sociale’ – ma di promozione della condizione dei minori.
Piccolo rimborso spese, piccole responsabilità, grande esperienza in un clima fortemente caratterizzato da storie radicali: uno spaccato intransigente della questione meridionale, che ci portava a studiare, leggere e discutere. Introducevamo – accanto alle elementari nozioni di psicologia, di sociologia e politica – gli ideali di giustizia; accanto al realismo operativo, l’attenzione nell’incontro e nell’accoglienza dei minori.
La lettura della dialettica sociale aveva bisogno di un inedito paradigma interpretativo; ed esso era per noi legato ai nuovi temi della politica sviluppati dal movimento ecologista. La globalizzazione non era ancora pregnante come parola d’ordine, era l’esigenza di sconfiggere l’inadeguatezza e la carenza di ‘teoria’, era la scoperta del paradigma della complessità: dal momento che i problemi si mostravano, insieme, ambientali, umani, economici, culturali e sociali.
Era una fuoriuscita coscienziosa, dal meccanicismo legato allo schema aristotelico-galileiano-cartesiano di causa/effetto – uno schema ancora dominante nell’agire politico e sociale degli anni ‘80 – alla logica sistemica. Lo facevamo senza peraltro avere a disposizione strumenti; avevamo seguito però – nella foresteria del monastero di Camaldoli – le lezioni del sociologo Achille Ardigò. Si trattava per noi di riconoscere la fine di un’epoca non solo scientifica, ma anche storica e sociale.
Così, dentro a queste vicende di maturazione culturale e sociale, ho preso la direzione dell’Istituto Focolare.
Nulla a che vedere col movimento dei focolarini; l’Associazione Nazionale Focolari nasce (in sintesi) nel secondo dopoguerra, crea delle comunità d’accoglienza con una convenzione col Ministero di Grazia e Giustizia, per evitare il carcere a giovani che rubavano per fame; vuole riprodurre al suo interno il clima di una famiglia: una coppia che presiede all’amministrazione e crea un clima di cordialità e responsabilizzazione degli ospiti per prepararli alla nuova vita, inserendoli nella vita sociale soprattutto attraverso il lavoro.
Ad un certo punto si verifica un’urgenza: un ospite della comunità, con certificata sindrome schizofrenica, figlio di nessuno, privo di lavoro, alla maggiore età non può restare ospite di questa comunità, è sulla strada. Fu allestita così una stanzetta della sede della FUCI in Piazza Duomo.
Questa vicenda non riguarda solo un posto dove dormire e consumare i pasti, riguarda le fughe e i ricoveri, tre tentativi di suicidio, o dialoghi infiniti, gli innamoramenti e le fughe mistiche a trovare veggenti in contato con Arcangeli, i ricoveri notturni in case di cura psichiatrica pagate con collette improvvisate, i viaggi in auto per recuperare qualcuno delirante, le serenate alla luna con quella chitarra sempre presente, l’onere di governare questo flusso emozionale che diventava sovente casi di delirio violento.
Queste poche parole indicano la densità di ciò che avveniva dentro questa storia in anni di miseria e di splendore.
[Questo contributo è una sintesi e un riadattamento della più ampia trattazione “Una storia di storie. Racconto di formazione per riluttanti aspiranti eremiti” a cura di Vincenzo Tomasello.]
*Vincenzo Tomasello nasce nel 1953. Vive e lavora ad Acireale. Dopo una lunga esperienza di servizio sociale, si Laurea in Filosofia con una tesi su Th. W. Adorno. Inizia subito ad insegnare nei Licei classici; connaturata alla sua ricerca è l’esperienza delle arti visive; tra il 1991 e il 2001 cura alcune decine di mostre di artisti siciliani ed è tutt’ora pubblicamente attivo nel campo della ricerca artistica. Recentemente ha pubblicato con mostre personali in galleria una trilogia: Alberi custodi (2021), Lebenswelt (2022), Vedo alberi ovunque (2024). www.enzotomasello.it
