Lettera a una professoressa
Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1967
Agli esami di riparazione del settembre 1965 Luciano Carotti ed Enrico Zagli, iscritti al primo anno dell’Istituto Magistrale Pascoli di Firenze furono bocciati. Era stato un anno scolastico difficile e faticoso per i due studenti, arrivati in città dalle valli del Mugello e messi di fronte ad un modo di fare scuola completamente altro rispetto a quella che era stata la loro esperienza. La bocciatura di Luciano ed Enrico è la ragione per cui, meno di due anni dopo, nel maggio 1967, la Libreria Editrice Fiorentina pubblica un testo, Lettera a una professoressa, che esce con la firma Scuola di Barbiana. I due ragazzi erano infatti arrivati al prestigioso istituto fiorentino avendo alle spalle quel modo di concepire e praticare la scuola che don Lorenzo Milani aveva radicato nel “salotto” della canonica aggrappata alle pendici del monte Giovi, trasformato in aula scolastica.
Quel testo aveva la forma di una missiva, indirizzata alla professoressa che aveva bocciato i due ragazzi e tuttavia intendeva parlare, prima di tutto, ai genitori degli studenti. Non era soltanto un pamphlet, ma piuttosto uno scritto nel quale si metteva sul banco degli imputati la scuola guardata dal punto di vista degli ultimi, degli esclusi, per denunciarne l’incoerenza con quell’articolo 34 della Costituzione che non solo sanciva il diritto universale all’istruzione e sulla sua gratuità ma aggiungeva: «I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». La Lettera metteva in luce un modo di essere della scuola che negava la possibilità ai “capaci e meritevoli” che fossero privi di mezzi e che invece, nelle sue forme e nelle sue pratiche, oltre che nei suoi contenuti, rifletteva e peggio alimentava la divisione sociale e l’ingiustizia.
Nella trama del testo non vi è solo il moto di reazione morale ad una pratica scolastica giudicata ingiusta. Milani e i suoi ragazzi, in un esercizio di scrittura collettiva che procede raccogliendo idee e spunti e tessendoli in una trama che copre i tanti aspetti della vita scolastica, radicano il loro parlare nei dati statistici. E però quei numeri vengono letti sempre in controluce rispetto all’esperienza di un frequentare le aule e le lezioni in conseguenza del quale Pierino, il figlio della borghesia e di una famiglia ricca, e Gianni, figlio di poveri contadini, restano quel che sono, senza possibilità di uscire dalla povertà per il secondo e di conoscere la verità delle cose per il primo. Lettera a una professoressa è allora un vero e proprio atto d’accusa nei confronti di una scuola che è specchio delle divisioni sociali e che, peggio ancora, le cristallizza. E lo fa in quello che è l’elemento decisivo per la produzione e trasmissione della cultura: la parola.
In un luogo centrale del testo si ricorda come il cuore dell’esperienza scolastica sia nell’imparare a parlare. Saper usare il linguaggio comporta infatti avere a che fare con tutti i concetti e le materie, perché la ricchezza e la pluralità di ogni lingua è fatta dal contenuto delle diverse discipline. Ma ancor più, la parola è centrale perché questa è ciò che permette a ogni persona di intendere e farsi intendere. La scuola dovrebbe essere il luogo in cui si impara la lingua o meglio il luogo in cui “si fa la lingua”, perché si riesce a utilizzare le parole per dare voce all’esperienza umana, in tutta la sua radicalità e nudità, la si rende qualcosa di esprimibile, di comunicabile e condivisibile.
Questa idea di linguaggio come veicolo di libertà è la eco, sul piano sociale e umano del diritto a parlare negato ai poveri, di quella Parola che per il Milani cristiano e presbitero si fa carne e carne di povero. Questa idea di cultura, nella quale la figura del maestro diviene così essenziale per insegnare a dire la verità delle cose, è allora il luogo più cristiano e al tempo stesso più politico. Qui si gioca, per il priore di Barbiana e per i suoi ragazzi, la possibilità di edificare davvero la comunità umana rompendo la forza di un conformismo sociale che cela sotto di sé l’ingiustizia di un furto: quello della possibilità di prendere la parola e poter essere, compiutamente, cittadini.
Lettera a una professoressa segnò in profondità il dibattito pubblico sulla cultura e sull’istruzione. Uscito alla vigilia del ’68, il testo divenne il parametro di una riflessione radicale e netta sullo iato che divideva la cultura dalla realtà. Soprattutto, rappresentò la provocazione anche per chi, come i fucini, praticava l’alta cultura universitaria e accademica, per interrogarsi su come il sapere avesse necessità di verità. La vicenda tormentata degli universitari cattolici lungo tutti gli anni Settanta è stata accompagnata dal confronto con l’esperienza milaniana e dallo sforzo di lasciarsi provocare dai paragrafi di quel testo, indirizzato ad una professoressa fiorentina e con lei a tutti coloro che facevano la scuola, la cultura, l’istruzione dell’Italia di allora. Il bisogno di autenticità della cultura che quello scritto denunciava poteva emergere solo da un ribaltamento, da un cambio di prospettiva che vedeva la cultura emergere dalla nudità dell’esperienza umana, a cominciare da quella più provocante e carica di significato che è quella della povertà e dell’esclusione. La cultura autentica come voce per chi non ha voce resta il cuore della proposta della Scuola di Barbiana. È certamente vero che Lettera a una professoressa l’esperienza di Milani e dei suoi ragazzi nella sua unicità. E tuttavia da quella esperienza irripetibile emerge la scoperta del rapporto strettissimo che lega cultura, istruzione e costruzione di una comunità umana impastata con la giustizia, con la libertà e con la fraternità. Resta questo il contributo più duraturo di questo testo, che provoca a interrogarsi, in ogni momento, su quanto e come la cultura e la scuola siano esperienza di umanità e proprio per questo momento essenziale di costruzione della città.
A cura di Riccardo Saccenti